Banca Dati / Numeri
Banca dati prestazioni
 
Accedi
Nome utente:
Password:
Password dimenticata?
Non ancora registrato?
 
Lo Sportsman: Il trotto d’America? Sta bene (29.3.06)  
Autore: unagt
Pubblicato: 29/3/2006
Letto 1552 volte
Dimensioni 12.57 KB
Versione stampabile Segnala ad un amico
 

ESAME DELL’EVOLUZIONE DELLA SITUAZIONE DEL SETTORE NEGLI STATI UNITI E DEI RAPPORTI CON L’EUROPA
Il trotto d’America? Sta bene
Tom Charters: "La sfida è trovare nuovi canali per portare soldi al montepremi. Siamo sempre interessati alla presenza di cavalli europei: lo Yonkers progetta di ripristinare l’international Trot»
In un periodo di serie difficoltà, soprattutto economiche, per il trotto in Europa (a parte la Francia), è interessante cercare di capire come vanno le cose in America, il cui trotto in passato ha rappresentato per quello europeo qualcosa di speciale, a volte un miraggio, sempre un punto di riferimento.
A presentare la situazione è Tom Charters, presidente della Hambletonan Society, l’organizzazione no profit fondata nel 1924 inizialmente per sponsorizzare quella che resta la classicissima del trotto americano e poi nel corso del tempo trasformatasi in un’stituone che supporta l’allevamento e si occupa di corse classiche (attualmente 25 Stakes per un totale di 135 corse), in particolare delle Breeders Crown.
Nuove strade per reperire risorse
«Il trotto in America sta bene comincia Charters - Qualcuno dice che in passato stava meglio: io non posso confermarlo, trent’anni fa guadagnavo 60 dollari la settimana e vivevo in un sola stanza, chiaro che negli ultimi 30 anni il modo è cambiato, anche quello dell’ippica. Abbiamo di sicuro alcuni problemi, ma in realtà li abbiamo sempre avuti e quelli d’oggi sono magari diversi, ma non più grandi di quelli di una volta». E quali sono i problemi di oggi? «Partiamo con il fatto che all’inizio degli anni ‘90 qui negli Usa è stata abolita la legge che consentiva d detrarre dalle tasse il passivo per i cavalli da corsa, da parte dei proprietari. Le conseguenze, come si può capire, sono risultate pesantissime per il settore, anzi si può dire che non ci siamo ancora ripresi completamente da questo colpo. Ma è stata anche un sfida per cercare nuove strade attraverso le quali trovare risorse da mettere a montepremi. Una delle soluzioni è stata quella di introdurre i video-lottery negli ippodromi. Per primo David Wilmot, presidente del Woodbine Entertenainment Group, che gestisce Woodbine e Mohawk, ha raggiunto un accorco con la Canadian Lottery: quest’ultima ha piazzato le proprie macchinette all’interno degli ippodromi, pagando un affitto e delle percentuali sugli introiti. Inoltre, nello spazio riservato ai video, è stato sistemato un mega-schermo che trasmette le corse in simulcasting: così chi non trova una macchinetta libera per giocare, può vedere le corse e scommettere su di esse. Quando a Wilmot è stato chiesto dalla stampa il perché di tale azione, ha risposto per ricavare soldi da mettere a montepremi e agevolare cosi il dventare proprietari. Dopo l’inizio canadese, oggi anche in molti ippodromi americani sono in funzione i video-betting».
Ma questa non è una concorrenza per il gioco su l’ippica? «Certamente si, ma esisterebbe anche se i video-betting non fossero stati portati all’interno degli ippodromi. E visto il grande successo che hanno incontrato presso chi ama giocare, in questo modo si è riusciti a sfruttare la loro diffusione, invece che subirla. Su ogni dollaro introdotto nelle slot, circa il 10 per cento va all’ippica: metà resta all’ippodromo per le spese organizzaive e generali, l’altra va a montepremi; di questi 5 centesimi, un decimo va alle Stakes. Così le slot contribuiscono a finanziare l’ippica e la loro concorrenza si è almeno in parte trasformata in un aiuto».
Le condizioni sono uguali in tutti gli Stati? «No, dipende dai contratti singoli tra ippodromi e le varie socetà delle lotterie, The Meadowlands, per esempio, non ha messo i video-lottery, ma ha raggiunto un accordo con l’amministrazione di Atlantic City, la quale sponsorizza con una cifra importante l’ippodromo del New Jersey, evitando in cambio la concorrenza diretta. E Yonkers è riuscito a finanziare lo Yonkers Trot e il Messenge, una delle pù grandi prove all’ambio, entrambi con montepremi che ha raggiunto il milione di dollari, attraverso i proventi venuti dalle slotmachine. Forse è una coesistenza che ci può non piacere, ma così è diventata utile. E poi bisogna tenere conto di un’altra trasformazione».
Quale? «Che siamo ormai di fronte a nuove generazioni che praticamente vivono al video, quasi in maniera virtuale. Dato che vogliono computer e i video-garre, è necessario seguire e per quanto possibile sfruttare questo cambiamento, è un passo che guarda soprattutto al futuro. Devo ammettere che anche io ho nella mente e nei ricordi l‘immagine degli ippodromi gremiti di pubblico, in passato. Però oggi siamo davanti a una realtà cambiata: le masse vengono soltanto nelle grandi giornate, invece lo sport di tutti giorni si svolge davanti a poco pubblico. La gente vuole stare comoda, si allontana dal livesport, preferisce seguirlo su schermo, a volte gli stessi proprietari dei cavalli se ne stanno a casa a vedere in televisione il portacolori. Però offrendo i video negli ippodromi, ci viene più gente che se non altro conosce e si abitua al luogo dove si svolgono le corse. E giocando, magari solo per caso, sulle corse, ci si può appassìonare: insomma, lo spostamento può avvenire anche in direzione opposta, anche se con numeri più piccoli».
Il settore è più piccolo ma più ricco
A proposito di numeri, il trotto americano si muove attualmente su cifre sufficienti dal punto di vista economico? «Anzi, le cose sono migliorate rispetto ad anni addietro. Per rendere l’idea, nel 1987 negli Usa o sono stati 56.000 cavalli partenti (ambio e trotto) che hanno corso per un montepremi complessivo di 400 milioni di dollari; nel 2003 invece ci sono stati 38.000 cavalli che hanno corso per 500 milioni di dollari, Nel 1987 i cavalli registrati nati sono stati 17.500, nel 2003 invece 11.000; e sempre nel 1987 l’Usta contava 50.000 membri, contro i 25.000 del 2003. E e cosiddette ‘fairs’, i convegni di corse di piccoli ippodromi in occasioni particolari, sono scese da 440 giornate nel 1987 a 180 nel 2003. In sintesi, il settore del trotto è diventato più piccolo e più ricco; ci sono sempre più Stakes, anche perché la carriera in Usa è molto breve, dura in pratica solo a 2 e 3 anni, un arco di tempo breve per valorizzare un cavallo».
E il numero dei cavalli, tanto diminuito, è sufficiente a sostenere il programma? «Sì, finora il materiale ha risposto in modo adeguato alle richieste, nonostante ad esempio The Meadowlands voglia sempre fare tredici corse da 10 partenti ciascuna. Ma l’importante è avere protagonisti sufficienti e validi per gli appuntamenti al massimo livello dello sport, quelli che rimangono allo stesso tempo l’obiettivo e il sogno per chi si occupa di corse».
Parliamo allora delle grandi corse. «Sono quelle su cui oggi si deve puntare più che mai, sia dal punto di vista della selezione, sia come unica possibilità di acquisire nuovi proprietari. Andare all’ippodromo in America ha ormai un aspetto e un significato di vita sociale: altrimenti lo scommettitore gioca da casa o sul simulcasting. Però nessuno è mai diventato proprietario di cavalli venendo dal simuloasting: invece, provando l’emozione della pista, vedendo un amico felice perché è proprietario del vincitore, scatta la molla che fa pensare ‘questo voglio anche per me” e per qualcuno lo fa realizzare. All’Hambietonian continuiamo ad avere ogni anno 40.000 persone: di queste, parecchie poi tornano, ma solo per un altro grande convegno. L’altro lato fondamentale delle grandi corse è naturalmente, da sempre, quello della selezione: un aspetto che rientra perfettamente nella mentalità americana».
Per la quale la velocità è fondamentale. «Sì, insieme alla precocità, visto che la carriera in pista si svolge praticamente solo a 2 e 3 anni. Durante gli ultimi 20 anni il settore si è spostato molto dalla quantità alla qualità. Noi americani vogliamo un ricambio generazionale e di sangue veloce, per questo i migliori atleti entrano in razza in modo definitivo alla fine dei 3 anni. E per legge, a differenza che in Europa, una volta entrati in razza i cavalli non possono correre. Del resto, i prezzi per gli stalloni in America sono così alti da rendere più vantaggiosa la monta piuttosto che rimanere in training, con un’eventuale carriera in Europa, in cui il cavallo rischia di essere battuto di conseguenza svalorizzato come stallone, oppure anche peggio rischia di farsi male. La questione economica influenza molto anche il commercio con l’Europa. Gli enormi prezzi pagati per gli stalloni, soprattutto quando vengono sindacati, rendono molto difficile la vendita in Europa, perché è quasi impossibile che ci sia un acquirente disposto a sborsare un cifra così alta. Anche se ci tengo a sottolineare che non ho dubbi che il cavallo americano sappia andare molto forte da anziano. Tanti l’hanno dimostrato, non solo i fenomeni, ma dopo un periodo di riposo, per acclimatarsi e per smaltire le fatiche della carriera giovanile americana, anche i soggetti buoni pur se non fuoriclasse».
Rinsaldare i contatti tra trotto Usa ed europeo
I rapporti tra America ed Europa sembravano più continui e serrati in passato... «Forse si, però noi siamo sempre molto interessati ad avere cavalli europei nei massimi confronti aperti in Usa. Anzi, la Breeders Crown Open (quella per intenderci vinta da Varenne nel 2001 e l’anno successvo da VictoryTilly, n.d.r.) ha proprio il compito di cercare di creare un ponte fra America ed Europa».
Ma la partecipazione resta difficile. « vero, perché c’è un calendario pienssimo nel corso dell’anno in Europa, con tanti soldi e occasioni, per cui è molto duro trovare una data in cui inserire una corsa in America. Eppoi bisogna dire che non sempre ci sono un Varenne o un Victory Tilly, anzi è vero il contrario, che nascono raramente. Come anche un Mack Lobell o una Moni Maker, che è stata l’ultima grande cavalla protagonista a più riprese sia in America che in Europa, andando avanti e indietro per quattro stagioni consecutive. Comunque, uno dei maggiori interessi dell’Hambletonian Society Breeders Crown è proprio quello di promuovere la reciproca conoscenza e presenza alle massime corse tra Europa e America, In questa prospettiva ogni anno siamo presenti all’Amérique e alI’Elitlopp; a Parigi, la sera della domenica, riuniamo in una cena incontro personaggi dell’ippica mondiale per favorire scambi di idee e di iniziative. un impegno non facile, ma che ci sta dando grandi soddisfazioni e qualche buon frutto».
Per esempio? «Per un proprietario o un allevatore americano l’Hambletonian ha sempre rappresentato il massimo traguardo raggiungibile nello sport. Non dico vincere, basta la partecipazione. Tuttora è così, ma sempre più spesso sento dire da proprietari o allevatori americani, dopo essere stati all’Amerique o alI’Elitlopp o alla Lotteria “se ho il cavallo adatto, voglio venire a correre in Europa’. Vuol dire che viene riconoscuto in pieno il valore e il livello tecnico di questi appuntamenti, oltre all’atmosfera straordinaria che si respira a Vincennes o a Solvalla o ad Agnano in tali gornate, un passo ancora piccolo, ma già grande come intenzione».
Insomma i rapporti fra il trotto d’Europa e quello d’America possono migliorare e diventare più stretti, «Secondo me è indispensabile. Da parte nostra c’è l’impegno e la volontà, anche di investire soldi, di contribuire alle trasferte: lo Yonkers vorrebbe addirittura ripristinare l’International Trot e l’idea è significativa. Noi siamo sempre felici di avere il vincitore del Lotteria o dell’Amérique o dell’Elitlopp alla Breeders Crown Open o al Nat Ray e continueremo a lavorare in tal senso. Posso aggiungere che anche cavalli americani vorrebbero venire in Europa, quest’anno ci sarebbe Vivid Photo, però in quanto castrone è escluso da molti dei massmi traguardi europei».
Sembra di capire che il punto di vista americano sul trotto sia positivo e ottimista. «Sì, perché le cose nel complesso vanno bene conclude Tom Charters - poi naturalmente per qualcuno vanno benissimo, per altri un po’ meno e c’è anche chi è in crisi. Ma ogni problema può diventare una sfida e un’occasione per migliorare. Bisogna non perdere di vista da un lato gli scommettitori, dall’altro i proprietari che rappresentano la categoria più a rischio fra quelle impegnate ogni giorno nell’ippica. Però fin quando sento americani dire che sognano di venire a correre in Europa, non posso che essere ottimista. Per me, come per tutti quelli che sono àppassionati di ippica, avere cavalli da corsa e occuparsi di loro è sinonimo di speranza nella vita».

 
Torna alla categoria | Torna all'indice principale
 www.ctech.it : Computer's Technology Srl © 2013 info@ctech.it 
&